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Quante volte ci preoccupiamo in una giornata? Quante volte sentiamo altri a noi vicini esprimere preoccupazione per qualcosa che ci riguarda? Analizziamo…
Innanzitutto l’etimologia della parola: preoccuparsi, ovvero pre-occuparsi, ovvero occuparsi prima di qualcosa che potrebbe anche non accadere. Ecco fatta la frittata: siamo con la mente già nel futuro, tra un’ora, un giorno, un mese o una vita non conta!
Quello che realmente conta è che la nostra consapevolezza non è più nel presente, nel qui e ora, la nostra mente ha iniziato l’opera perfida di possessione delle nostre emozioni, del nostro essere. Nella migliore delle ipotesi siamo identificati con un timore per il futuro, nella peggiore siamo già in un attacco di panico per una situazione che probabilmente non accadrà… ma alla quale stiamo già dando la nostra potente energia mentale, e quindi se siamo buoni “manifestatori”, la faremo prima o poi accadere…
Un po’ come guidare dietro a un’auto in un’autostrada a quattro corsie, l’auto davanti frena senza ragione, noi ci fissiamo sulla paura di tamponarla, vediamo solo le luci dei suoi stop pericolosamente rossi, pigiamo sul freno con le braccia tese sul volante e… bang! E solo dopo l’urto, se ne usciamo vivi, ci accorgiamo che tutte le corsie intorno erano vuote, sarebbe bastata una leggera sterzata e niente sarebbe accaduto… ma noi ci siamo più preoccupati dei suoi stop accesi che occupati a guardarci intorno!
Poi se una preoccupazione diventa costante causa un livello di stress costante e l’organismo entra in uno stato perenne di reazione adrenalinica “combatti o fuggi”, fisiologicamente fatta invece per entrare in azione solo con pericoli presenti in quel momento.
Il vero problema è che questo stress costante indebolisce le naturali difese, e quindi, nel tempo, diamo al fantasma di ciò che temiamo più potere di manifestarsi: ad esempio come nel caso della preoccupazione di una malattia che non abbiamo.
Quante volte in fondo non abbiamo preso l’influenza pur stando in mezzo a folle tossenti e starnutenti? E se ci fossimo preoccupati di ammalarci ogni giorno di ogni freddo inverno passato indenni, sarebbe stato lo stesso? Avremmo vissuto forse meglio, forse sereni?
Quanto sopra per le preoccupazioni verso noi stessi. Ma… cosa accade quando qualcun altro, magari uno dei nostri affetti più vicini, si pre-occupa per noi? La cultura dominante e i messaggi impressi da generazioni nel nostro inconscio ci bisbigliano: “Si stanno preoccupando per me, mi vogliono bene”. Invece, il messaggio più profondo è ben diverso: è una proiezione dei timori e delle paure dell’altro su di noi… così è stato insegnato a lui o lei, così fa con noi, solo perché non ha portato consapevolezza alle proprie paure.
Preoccuparsi degli altri non vuol dire amare: trasmette all’altro paura e sfiducia nelle sue risorse. Il fine in realtà è puramente egoistico: colui che si preoccupa degli altri scarica parte della sua energia inconsapevole di paura su di noi. Un’energia di paura mascherata da amore… quale sottile e affascinante maschera! Come non credergli, come non cascarci!
Non solo, preoccuparsi di qualcun altro ci scarica anche dall’unica cosa che sarebbe invece vero amore: occuparsi dell’altro! Azione al posto della preoccupazione!.. Ma solo quando la situazione fosse reale, non una paura proiettata sull’ingannevole schermo del futuro.
Gesù ci ha dato un chiaro messaggio: “Ama gli altri come te stesso”. La Chiesa lo ha distorto: “Pensa (preoccupati) prima degli altri e poi di te stesso.” Ma il messaggio originale era diverso: “Impara ad amare te stesso, perché solo quando saprai amarti sarai in grado di amare gli altri”.
Quindi, invece di pre-occuparci, impariamo ad occuparci di noi stessi: e sapremo occuparci davvero degli altri.
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